Lo strappacuore di Boris Vian recensione di Ettore Sannino

Lo strappacuore di Boris Vian recensione di Ettore Sannino
Lo strappacuore di Boris Vian è un racconto caleidoscopico in cui, mentre si procede nella lettura, forme e colori diversi, di volta in volta, si materializzano davanti agli occhi.

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E’ un romanzo fantastico, ma allo stesso tempo verisimile, lo potrei definire una sorta di paradosso della realtà.
I luoghi sono descritti con un’esattezza da impressionista, in quanto non appartenenti ad alcun mondo reale nella forma delle cose che lo compongono ma veri all’apparenza, o forse ispirati a più paesaggi visti da Vian; sembra di muoversi in un Van Gogh.
I mesi si susseguono, si accavallano, si sovrappongono e così anche i loro nomi.
Il tempo infatti all’inizio viene scandito normalmente, ogni capitolo ha una datazione reale, 3 marzo, 8 maggio, 2 settembre, poi si arriva a giuglio, ottembre, febbrugno e la realtà si decompone, perde contatto col nostro tempo reale e crea un tempo nuovo, surreale, in cui chi legge deve per forza entrare, pena non fare più parte della storia., esserne fuori.
I personaggi, umani, reali, con i loro pregi ed i loro difetti, i loro vizi e le loro virtù, ma surreali nell’esasperazione dei ruoli, delle professioni, delle passioni, dell’etica, della morale.

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Clementina, Angelo, Culobianco, Giacomorto, il parroco, il maniscalco, La Gloria, i bambini, sono veri in parte, fino al punto in cui smettono di essere veri.
Ma quando smettono di essere veri, non diventano fantastici, non vestono abiti da supereroi o si trasformano cambiando colore e forma. Semplicemente divengono surreali, ma perfettamente a loro agio nella surrealtà che li circonda.
È un romanzo divertente, strappa spesso un sorriso, a volte anche una risata, ma improvvisamente diventa iperrealistico, feroce, un vero cazzotto nello stomaco, indigesto, solo all’apparenza immotivatamente cattivo.
Il mercato dei vecchi, il castigo del cavallo, sono atroci, anch’essi surreali, ma reali, perché reale è l’intolleranza della società verso i vecchi e reale e la cattiveria degli uomini verso gli animali, specie quando non sono disposti a piegarsi al nostro volere, alle nostre regole.
Vogliamo umanizzare gli animali ma allo stesso tempo restano le bestie: regole cui sottostare, ma relegati al loro ruolo di animali.
Atteggiamenti entrambi sbagliati, verrebbe da pensare, ma non in questa surrealtà.

Ma la follia di Vian nel concepire un simile intreccio, un simile sistema sociale, simili metafore, diventa in alcuni tratti poesia, come quando descrive il vento :“Il vento si era alzato al mattino. Aveva raschiato la superficie del mare per portargli via lo zucchero bianco degli spruzzi, aveva scalato la scogliera, facendo scampanellare le eriche stridule,girava attorno alla casa, ritagliandosi un fischietto a ogni più piccolo angolino, sollevando qua e là, qualche tegola più agile, rotolando fogli dell’autunno passato,filigrane brunite sfuggite al risucchio della composta, strappando dai solchi un drappeggio di polvere grigia, scorticando con la sua raspa la crosta secca di antiche pozzanghere”.
Queste righe, come molte altre nel testo, sono bagliori di pura poesia!
Ma, oltre tutto c’è l’etica della storia, un’etica cinica, negazionista, che porta all’estremo i concetti dei buoni sentimenti e con l’ultimo paradosso che compie quell’antitesi per cui il bene può travasare nel male, almeno laddove raggiunge il parossismo.
Un libro insolito, un vagabondare nei meandri della narrazione con modi affabulatori, a tratti talmente assurdi da farci chiedere se valga veramente la pena di leggerlo, per poi farsi improvvisamente travolgere, in modo che solo leggendolo possiamo mettere un freno alla curiosità ed alla fantasia che ormai ci hanno catturato. Una lettura brillante, sconcertante, ammaliante, complessa, ma una lettura indispensabile.
Vian è un genio, folle, ma un genio!

Recensione di Ettore Sannino

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